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Alla
ricerca della fortuna, della felicità, di un approdo, di una donna
intravista di sfuggita da un treno, o di quella amata e abbandonata
perché la beatitudine non fa per loro, è un eterno errare quello dei
personaggi di Slauerhoff, un vagare verso una meta che non fa che
allontanarsi e, se raggiunta, si rivela inafferrabile e illusoria, come i
miraggi. Più che la ricerca è la perdita il tema comune a questi
racconti, pur così diversi fra loro, la non appartenenza, la malinconia
del viaggiatore che arriva la sera in una città sconosciuta e sa che le
luci e il colore che ne emanano gli saranno sempre estranei. La Mecca,
una Bassora da ironiche Mille e una notte, Kiev, Mosca,
Locarno, Creta, la Crimea, Burgos, Malaga, Frisco, i porti brulicanti
della Cina, gli oceani, i deserti, le steppe, nomi che evocano mondi di
avventura, non sono le tappe di un cammino, il progredire di esperienza
in esperienza verso la comprensione di quanto si è vissuto, ma soste
provvisorie nel perenne nomadismo di chi si sente ovunque sradicato ed
esule, straniero alla vita. Nonostante certe atmosfere conradiane, più
che a Conrad è a Roth che fa pensare Slauerhoff: neppure il mare redime
dall’indifferenza e dal torpore dell’anima; la tempesta non è la prova
da cui si esce vincitori o sconfitti, la nave resta in balia delle onde
senza una mano che la diriga, sopravvive lasciandosi andare alla deriva.
E in quell’andare alla deriva si riassume il destino dei personaggi,
spinti dal vento del caso a una fuga senza fine, verso quell’unica meta
che può dare la pace: l’oblio, la liberazione da se stessi, la
dissoluzione, come l’acqua e l’aria nella schiuma e la terra e il fuoco
nella cenere.
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